Rami, radici e connessioni. Agnese Lavorgna, insegnante di Lucca Italian School, racconta la sua esperienza a scuola, prima e durante la quarantena. E ci dice anche molto di più.
Rami, radici e connessioni
Prefazione (di Daniela Bonaccorsi )
Quando ho chiesto ad Agnese Lavorgna di scrivere un testo sull'esperienza della quarantena, sapevo che ne sarebbe venuto qualcosa di buono. Lo sapevo, perché la conoscevo ormai da un po' di tempo, ne apprezzavo la sensibilità, e perché avevo intuito la sua passione per la scrittura. Non sapevo, però, che mi sarei trovata davanti ad uno scritto di tale profondità, e che mi ha ridato la voglia di leggere cose BELLE. No, non lo sapevo che il suo talento era, a mio parere, straordinario.
Ho scelto questa foto per presentare il suo racconto, la trovo molto appropriata per introdurre un testo che mi ha profondamente colpito. La foto è un dono molto gradito di una nostra cara studentessa olandese, Jet. Lei ha concepito una metafora che trovo bellissima, oltre che commovente: "Angelo e la quercia come simbolo della scuola LIS, con le radici nell'Italia e con i rami aperti al mondo, e con il supporto di tutti quelli che amano LIS."
Non mi vergogno ad ammettere che quando ho ricevuto questa foto con quella didascalia, mi sono venute le lacrime agli occhi. E lo stesso mi è capitato leggendo per la prima volta le parole di Agnese, insieme alla pelle d'oca che ho avuto ogni volta che le ho rilette, e che ho ancora, ogni volta che le rileggo.
Ecco Agnese al lavoro:
Ed ecco il testo: (più sotto, la traduzione in inglese fatta da Penelope Barnett, anche lei studentessa LIS, che ringraziamo di cuore: un altro esempio delle preziose connessioni stabilite in questi tempi difficili)
A prescindere dai metri
Agnese Lavorgna – Luglio 2020
Ecco la villa liberty, come non vederla.
Posteggio la vespa rossa proprio lì sotto, a ridosso delle mura.
È una mattina d’estate piena, vento caldo e cicale insistenti. Il cancello è aperto, nel giardino non c’è nessuno. Mentre salgo i primi gradini mi guardo intorno, tutto è maestoso, eppure sobrio. Chissà chi ci viveva qui. Chissà quali storie abitano ancora questa veranda.
Con dita nervose, nella borsa, cerco il curriculum, lo trovo. Procedo. C’è una quiete elegante. Scalone Art Déco, curvatura sinuosa, fiori di ferro battuto guidano il mio sguardo. Pianerottolo, porta, corridoio. Decori di vetro a corredo di un altro varco ancora. Procedo timida. Da dietro porte di legno color crema mi raggiungono voci chiare, parole dette per essere capite, e poi risate. Mi sembra di essere fuori dal tempo. Avanzo ancora, cerco un ufficio in cui non mi aspetta nessuno, il corridoio è quasi finito, ma a sinistra una porta è aperta, mi affaccio, con le dita torno a cercare il conforto del curriculum, e mentre lo sfilo dalla borsa chiedo se posso presentarmi.
Una manciata di minuti dopo, seduta sulla vespa rovente di sole, mi maledico per come l’ho fatto: un’accozzaglia non richiesta di spezzoni del mio film. Un monologo disordinato senza filtri, senza strategia, senza criterio.
Tutto, ho detto tutto.
Ho detto troppo.
Televendite e pizzeria incluse.
Mi metto il casco mentre scuoto la testa, il curriculum nella borsa non c’è più, e io sento di avere sprecato un’occasione.
L’occasione. Invece loro, quel tutto, senza togliere, senza aggiungere, hanno saputo guardarlo, indagarlo, illuminarlo.
Daniela, Eva e Angelo fanno così. Ti prendono per come sei, valorizzano ciò che hai, ti affidano il seme di quel che manca e poi ti aiutano a camminare da sola, vegliando da lontano, senza abbandonarti mai. Lo fanno con me da quel giorno di cicale, lo fanno con gli studenti da decenni.
E io credo che sia stato proprio questo loro modo di stare al mondo, questa attitudine all’ altro, ad avere permesso a Lucca Italian School di salpare anche in una stagione così, di quelle che ammutoliscono e congelano, per mettersi ancora una volta in viaggio, nonostante tutto: mai come in questi mesi assurdi ci si è sentiti davvero tutti in balia dello stesso destino, insegnanti e studenti, fragili a turno, persone sempre.
Sì perché gentilezza chiama gentilezza e nel giardino di quella villa nobile e bella, a ridosso di mura che sanno abbracciarti, lingua, cultura e rispetto sono riusciti a fiorire anche in tempi di pandemia.
Quando a fine febbraio l’Italia ha iniziato ad ammalarsi, quando abbiamo iniziato a capire che qualcosa stava per accaderci, i messaggi di preoccupazione, di affetto, di incoraggiamento dei nostri studenti hanno iniziato a posarsi su quelle giornate incredule come neve sugli alberi dietro il nostro cancello chiuso, in veranda, sui capitelli di pietra nobile, neve sui petali di ferro della scala sinuosa, nel corridoio deserto, sui mosaici dei pavimenti nelle stanze vuote.
È così che la mia immaginazione mi riporta a quei giorni sospesi: una nevicata di affetto, di sguardi e carezze, silenziosa e abbondante, sulle nostre teste, sulle nostre speranze, all’ inizio di una primavera che sarebbe tardata ad arrivare, per poi diventare subito estate.
Ed è proprio sotto quella neve che ha iniziato a germogliare un modo nuovo, figlio di un distanziamento inedito e necessario. All’ inizio ci sembrava impensabile, freddo, monco. Che sapore avrebbe avuto la didattica a distanza? Che fine avrebbero fatto il non detto, il non codificato, la mano sulla spalla, l’occhiata complice, il sedersi accanto, l’allontanarsi…
Non è stato facile, non è stato immediato, ma sorriso dopo sorriso la magia della relazione ha regalato sintonie nuove, e anche la parola “connessione”, ora, ha una fragranza diversa. È più rotonda, più vera, più viva.
Quel sapere comunicare di radici, che chi frequenta questa scuola conosce bene, ha permesso il verdeggiare delle fronde, e così è successo che nella lontananza la condivisione di un dolore marziano e diffuso ci abbia tenuti tutti ancora più stretti. Insegnanti e studenti, da un capo all’altro del mondo, mai così vicini.
Ora è estate, da qualche settimana ho ricominciato a parcheggiare la vespa nel solito posto, il cancello della villa è aperto, e i grandi alberi ci regalano ombra e tranquillità. È qui che facciamo lezione con i primi studenti di questa nuova fase; sanifichiamo le mani, gli oggetti personali, le sedie, i tavolini, e ci sediamo nel verde, tra le cicale insistenti, a quella che viene considerata la giusta distanza.
Connessi, lo sentiamo, a prescindere dai metri.
English Translation (by Penelope Barnett)
No matter where we place our chairs
Agnese Lavorgna – July 2020
The Liberty-style villa comes into view. You can't miss it.
I park my red Vespa opposite, under the city walls.
It's a hot summer's day, there's a warm wind blowing and the cicadas are in full song. The large iron gate is open, the garden deserted. As I climb the stone steps to the veranda, I stop to look around. The place is majestic but not opulent. I find myself wondering who lived here and what stories this veranda could tell.
My fingers tremble as I reach into my bag and fumble for my CV. I find it and start walking again. Inside the building, there's an air of tranquillity. My eyes are drawn to the elegant floral motifs of the ironwork that adorns the Art Deco staircase. Upstairs, I find a door, a corridor and a stained glass archway leading to a second passageway. I take a few hesitant steps in this direction. Voices can be heard behind the creamcoloured doors, clear voices, whose aim it is to be understood, and then laughter. I feel as if I'm in a different world. I move on, looking for an office where I can announce my unexpected arrival. I've almost come to the end of the corridor when I see an open door on the left. I stand on the threshold, my fingers seeking the comfort of my CV once again. I pull it out of my bag and ask if I can step inside.
A few minutes later, I'm back on the Vespa, which is now red hot, cursing myself for the way I handled it. I gave them a rushed hotchpotch of unsolicited stills from a film called My Life So Far. It was a totally disorganised monologue, with no filters, strategies or criteria.
Everything.
I told them everything.
I told them too much.
I even mentioned the job in telemarketing and the one at the pizzeria.
I'm still shaking my head in disbelief as I put my helmet on. They held on to my CV, but I'm sure I've just wasted my chance. My one and only chance.
But miraculously, they somehow knew how to take that jumble of information, examine it, shine their collective light on it and get to the heart of it.
That's the way they do things, Daniela, Eva and Angelo.
They take you as you are, they appreciate the skills you have to offer, and they plant the seeds of those that are missing. Then, they guide you, from a distance, never just abandoning you to your fate. They've been doing this for me ever since that hot summer's day, and they've been doing it for their students for years.
I believe that it's this approach, this attitude towards others, that has kept the Lucca Italian School afloat in these uncertain times. This absurd situation left us all mute and paralysed, but the school quickly set sail again, charting a steady course through the obstacles. We've never known months like these, when we've all been potential victims of the same unhappy fate, when teachers and students have felt equally vulnerable, but nevertheless united.
One act of kindness inspires another, and in the garden of this beautiful, noble villa, under the watchful gaze of the city walls, language, culture and mutual respect have been allowed to blossom once again, pandemic or no pandemic.
At the beginning of February, when Italy began to fall ill, and as we glimpsed what was about to happen to us, messages from our students, messages of concern, affection and encouragement, began to flutter in and alight on those unfathomable days like snowflakes landing on the trees beyond our shuttered gate, on the veranda, on the stone capitals of the balustrade, on the wrought iron petals of the winding staircase, on the deserted corridor, on the mosaic floors of the empty classrooms.
That's how I remember those strange days, suspended in time: a snowfall of affection, of sympathetic glances and caresses, as silent and as soft as a pillow, settling on our heads and on our hopes, at the beginning of a spring that was late in arriving and turned, almost immediately, into summer.
And it was beneath this blanket of snow that the seeds of a new way of being began to send forth shoots, the offspring of an unprecedented and unavoidable distancing.
At first, this new way seemed unthinkable, cold and incomplete. What possible attraction could long-distance teaching and learning have? What would become of the unspoken word, the uncoded message, the hand placed on a shoulder, the complicit glance, the sitting together and the moving apart again?
It wasn't easy at first, and there was no immediate taste of success, but one smile at a time, the magic spell woven by relationships resulted in a new kind of harmony, adding a different meaning to the word "connection", making it more real, more immediate and more complete.
Knowing how to communicate by means of roots, a concept already familiar to those who attend this school, meant that the foliage of our friendships was still able to flourish. Sharing a common and unthinkable pain made distance irrelevant and bound us even more tightly together.
Teachers and students, from one end of the earth to the other, had never been as close.
It's summer now, and for the past few weeks I've been parking my Vespa in the usual place. The big iron gate is open once again, and the stately trees in the garden offer us shade and tranquillity. Here, beneath their boughs, we hold classes for the first arrivals in this new phase. We sanitise our hands, our personal items, the chairs, the tables, and we sit in our green classroom, among the chirping cicadas, at what is considered to be an appropriate distance.
And we feel connected, no matter where we place our chairs.
Commenti
Posta un commento